Era un lunedì ,
tornavo da una lezione di francese, ignara, perché nonostante tutto non mi ero
resa conto della gravità.
Ancora mi domando
come sia possibile, sapevo cosa fosse un tumore e sapevo cosa volesse dire
morire, avevo 15 anni, non 5.
Eppure pensavo
che sarebbe passato, una brutta malattia, ma non grave.
L’anno successivo avrebbe ripreso a darmi passaggi a scuola e avremmo recuperato quell’anno triste, con le nostre conversazioni, con tutti i suoi racconti, con ogni mia domanda.
L’anno successivo avrebbe ripreso a darmi passaggi a scuola e avremmo recuperato quell’anno triste, con le nostre conversazioni, con tutti i suoi racconti, con ogni mia domanda.
Invece quel lunedì,
ad aprire la porta di casa c’era mia zia, piangeva, in quel preciso istante, come se mi si fosse
illuminato il cervello, ho capito.
Ancora oggi mi
chiedo, come sia possibile che pur non avendo mai sospettato che sarebbe andato
via, quella sera mi è bastato un secondo per collegare e capire.
Mi lasciava sola con tutte le mie fragilità, mai risolte, e con tutte le mie domande alle quali anche da adulta non so dare una risposta.
Mi lasciava sola con tutte le mie fragilità, mai risolte, e con tutte le mie domande alle quali anche da adulta non so dare una risposta.
E va bè, è andata
cosi. E il tempo che passa è solo la prova che a certe mancanze non ci si abitua neanche quando gli anni senza sono molti molti di più di quelli con.
Io, intanto, continuo a guardare la sua foto e a pensare con orgoglio che
gli somiglio tanto, anche se forse, proprio vero non è.
E stasera, più
che mai vorrei andare a letto e sognarlo e domani svegliarmi con la sensazione
di avergli parlato davvero, di averlo ascoltato e abbracciato.
Ecco, sarebbe bellissimo.